Il danno da rumore è malattia professionale se conseguenza di specifiche attività previste dalla legge e se la perdita dell’udito è “apprezzabile”.
Viviamo infatti costantemente circondati da rumori: passeggiando per strada, accendendo un elettrodomestico in casa, soprattutto svolgendo determinate attività lavorative. Non tutti sono ugualmente sensibili al rumore, essendovi alcune persone che possono risentire dei suoni particolarmente forti più di altre e riportare dunque, a lungo andare, danni anche gravi.
La diminuzione o la perdita dell’udito (ipoacusia) legate all’attività lavorativa sono definite ipoacusie da trauma acustico cronico e si verificano a seguito dell’esposizione prolungata a rumori con particolari caratteristiche. Si tratta di diminuzioni dell’udito generalmente simmetriche, dunque riguardanti entrambe le orecchie. Quando cessa l’esposizione al rumore, l’evoluzione della sordità si arresta, ma il danno ormai prodotto è irreversibile.
Il danno acustico da rumore può essere prevenuto con opportune misure ambientali e personali (caschi, cuffie, pareti fonoassorbenti, ecc.), ma non esiste purtroppo alcuna terapia efficace.
Il danno all’udito è considerato malattia professionale solo quando è contratto nell’esercizio ed a causa dello svolgimento di specifiche attività indicate dalla legge, o nell’espletamento di lavorazioni accessorie o complementari a queste, purché svolte nello stesso ambiente.
Analizziamo oggi la sentenza del 4 maggio 2017 del Tribunale di Cassino che riguarda un accertamento della responsabilità civile in capo ad un datore di lavoro, nei confronti del quale un lavoratore richiede il risarcimento dei presunti danni a suo dire subiti a fronte dell’esposizione al rischio rumore durante l’intercorso rapporto di lavoro.
Un lavoratore addetto per 36 anni alla manutenzione dei convogliatori mediante ganci generanti rumore, si rivolge al Tribunale del lavoro lamentando di essere stato esposto a rumore anche nel reparto stampaggio; asseriva di non essere mai stato dotato di dispositivi di protezione acustica e di aver riscontrato, poco prima di essere collocato in quiescenza, una ipoacusia percettiva bilaterale per alte frequenze, per la quale aveva successivamente inoltrato all’INAIL denuncia di malattia professionale.
La società si costituiva in giudizio eccependo l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento dei danni sia morali che biologici, contestando altresì la ricostruzione dei fatti operata dal dipendente, asserendo che il periodo per il quale si disponeva dei dati ambientali (dopo il 1996), il livello di esposizione quotidiana al rumore misurato non aveva mai superato gli 81-82 db e che comunque il lavoratore era stato correttamente informato sui rischi da rumore.
Secondo il Tribunale
Il Tribunale del Lavoro di Cassino (Sentenza del 4 maggio 2017) ha escluso ogni responsabilità, anche a titolo di colpa del datore di lavoro, e ha rigettato il ricorso.
Ai fini della decisione, il Tribunale rileva come “….in replica ai rilievi del ricorrente, è sufficiente osservare che il sig. … ha lavorato, in qualità di operaio aggiustatore addetto alla manutenzione degli stampi presso il reparto stampaggio, con un’esposizione ad un livello di rumorosità sempre al di sotto degli 85 dbA (si vedano al riguardo gli esiti dei rilievi ambientali eseguiti dal Centro Servizi KKK nel 2005 allegati alla produzione di parte resistente, in ordine alla cui completezza ed attendibilità il ricorrente nessun rilievo ha formulato). L’art. 43 D. L.vo 277/1991 prevede l’obbligo per “il datore di lavoro” di fornire “i mezzi individuali di protezione dell’udito” solo nel caso di “lavoratori la cui esposizione quotidiana personale (possa) verosimilmente superare 85 dbA” (1° comma); nonché l’obbligo dei lavoratori di “utilizzare i mezzi individuali di protezione dell’udito forniti (loro) dal datore di lavoro” (e quindi del datore di lavoro di controllarne l’effettivo utilizzo) solo nel caso in cui la “esposizione quotidiana personale super(i) 90 dbA” (4° comma). L’art. 44, poi, prevede l’obbligo di “controllo sanitario” per “i lavoratori la cui esposizione quotidiana personale al rumore super(i) 85 dbA”.
Conclude il Tribunale: ” … Preso atto delle disposizioni normative vigenti in materia (che nella specie valgono a riempire concretamente di contenuto il generico obbligo sancito a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.) e considerato che non esistono, allo stato, prescrizioni più rigorose e stringenti anche da parte degli enti deputati al controllo dell’adozione delle misure di sicurezza, deve escludersi la possibilità di ascrivere una qualche responsabilità colposa in capo al datore di lavoro per la malattia professionale (ipoacusia percettiva bilaterale) eventualmente contratta dal lavoratore…”.
Perché il danno all’udito possa considerarsi malattia professionale deve comportare una apprezzabile diminuzione della capacità di sentire, da valutarsi caso per caso.
Il danno all’udito deve essere riscontrato e certificato dal Servizio di Igiene e Sicurezza del Lavoro dell’Asl, oppure a seguito di visita specialistica su indicazione del proprio medico curante.
Il certificato che attesta l’ipoacusia deve essere consegnato dal lavoratore al datore di lavoro entro 15 giorni dalla visita.
Il datore di lavoro deve dunque trasmettere all’Inail la denuncia di malattia professionale entro 5 giorni dal ricevimento del primo certificato medico, corredata da informazioni in merito all’attività che avrebbe determinato la malattia, le mansioni del lavoratore, gli accertamenti praticati in azienda e l’orario di lavoro.
Successivamente, l’Inail chiamerà a visita il lavoratore e chiederà al datore di lavoro copia del documento aziendale di valutazione dei rischi.
Il lavoratore chiamato a visita dall’Inail dovrà portare con sé:
- libretto di lavoro;
- documentazione sanitaria inerente la patologia denunciata;
- accertamenti sanitari preventivi e periodici svolti in azienda;
- eventuali attestazioni di invalidità riconosciute in altri ambiti giuridici.
Se la malattia denunciata non è prevista dalle tabelle, l’Inail può avvalersi, in caso di dubbi, della sua struttura tecnica di accertamento del rischio (Contarp) per effettuare indagini ispettive all’interno dell’azienda e quantificare l’esposizione.
L’Inail, assumendosene i costi, può anche richiedere al lavoratore ulteriori accertamenti sanitari.